Lezione recitata con Andrea Caimmi
Ai nostri giorni di fronte a immagini di colonne di profughi, sensi d’identità minacciate, difficoltà di integrazioni culturali, crisi economica e crisi climatica, è ricorrente la sensazione di trovarci davanti a una situazione inedita, per cui non saremmo dotati di categorie adeguate: ed è provocatorio pensare che invece proprio i grandi poemi alla base della cultura occidentale già evochino un quadro di situazioni e di problemi non troppo dissimile. E se non ci forniscono risposte preconfezionate, aiutano a ragionare su quale categoria-futuro pensiamo di ridisegnare tutti assieme.
Nata su commissione di un principe ambizioso per celebrare una nuova età dell’oro, l’Eneide si sviluppa nel segno di una ben più profonda ricerca interiore, che resta incompiuta per la morte di Virgilio ma forse anche per l’impossibilità di conciliare presupposti ed esiti. La lettura trionfalistica e grevemente ideologica di grande poema imperiale con cui verrà pubblicata contro la volontà dell’autore, e spacciata ancora per lungo tempo come interpretazione unica, si confronta in realtà con un quadro piuttosto diverso sottostante, e con un disagio dove la crisi di Virgilio si specchia in quella del tempo remoto del suo eroe. Lontano da ogni caricatura di marmo, Enea col suo popolo è un profugo allo sbando nel più grave collasso di sistema del mondo antico, quello che travolge l’età del bronzo (circa 1200-1150 a.C.): una crisi – climatica, politica, economica, culturale, religiosa – che dai Balcani al Caucaso, dall’Egeo al Nord Africa, dall’Anatolia giù per tutto il Levante e con ricadute fino al Mediterraneo occidentale vede migrazioni coatte, crolli d’imperi e nascite faticose di nuovi assetti, ibridazioni culturali improvvisamente accelerate e naturalmente recezione di tanto trauma nei miti.